Il reato di violenza domestica o, per la lettera del codice penale, di maltrattamenti contro familiari o conviventi ricorre qualora venga arrecata violenza a un familiare, a un convivente o a una qualsiasi persona affidata alle proprie cure, alla propria vigilanza, istruzione o educazione, all’interno delle mura domestiche o in luoghi come strutture di assistenza e ricovero.
La finalità della norma penale è quella di punire chiunque abusi di soggetti deboli, la cui situazione di debolezza è data proprio dal sottostare alle cure ed agli insegnamenti di una data persona, o all’abitudinarietà di un certo ménage familiare (può trattarsi tanto di una famiglia legittima, quanto di una famiglia di fatto). Anche se la norma penale dice che il reato può essere commesso da chiunque, è solo chi è legato alla vittima da una particolare relazione che può commetterlo. La Cassazione si è addirittura spinta oltre, affermando in una pronuncia che per aversi il reato in parola non sarebbe neppure necessaria la coabitazione o la convivenza: si pensi al caso di due coniugi separati (consensualmente o giudizialmente) i cui rapporti interpersonali siano rimasti inalterati (e, nella specie, uno dei due sia psicologicamente subordinato all’altro).
Quando si ha violenza domestica?
La violenza, cui fa riferimento la norma penale sui maltrattamenti contro familiari o conviventi, può coincidere sia con la violenza fisica che con quella verbale: si pensi ad un uomo che percuote abitualmente la compagna convivente, o ad un genitore che rivolge costantemente offese di vario tipo ad un figlio, umiliandolo. Ciò che non deve mai mancare affinché possa configurarsi il reato è, però, l’abitualità delle violenze (non a caso, la norma parla di maltrattamenti, al plurale) e il loro reiterarsi nel tempo. Singoli episodi, sporadici, impediscono di poter parlare di violenza domestica, ma è sempre possibile che gli stessi diano vita a reati diversi (come al reato di percosse). La violenza domestica può configurarsi tanto con una condotta attiva, quanto con una condotta omissiva. Quest’ultima si ha quando, di fronte alla violenza perpetrata, colui che deve avere cura della persona offesa non compia alcunché per evitare che si produca l’evento (esempio tra tutti, quello di una madre che resta inerte dinanzi al nuovo compagno che percuote il figlio avuto dal primo marito). In un caso, la Cassazione ha addirittura ravvisato la condotta incriminata nell’atteggiamento iperprotettivo di una madre che, in concorso con il nonno materno, aveva per lungo tempo impedito al figlio minore di intrattenere rapporti col padre o coi suoi coetanei, inibendogli ogni normale attività del tempo libero.
Come si denunciano i maltrattamenti?
Il reato è procedibile sia d’ufficio (senza una formale denuncia dell’offeso), sia a querela di parte. La vittima non deve far altro che recarsi in questura o presso la stazione dei carabinieri, e gli organi deputati redigeranno opportuno verbale dell’intervento. Tuttavia, per la stesura dell’atto di querela è sempre possibile rivolgersi ad un avvocato.
Sicuramente, chi è stato denunciato deve rivolgersi ad un avvocato specializzato in ambito penale, affinché costui predisponga gli opportuni atti difensivi.
Dalla denuncia hanno inizio le indagini, che culmineranno nella richiesta da parte del pubblico ministero al Giudice per le indagini preliminari (il Gip) di rinviare a giudizio il colpevole, oppure di disporre l’archiviazione del procedimento penale in corso. Solo nel primo caso il processo continuerà, e potrà portare alla condanna dell’aggressore.
Quali sono le pene per la violenza domestica?
La pena per coloro i quali si siano resi colpevoli del reato di violenze verso familiari o conviventi è quella della reclusione da due a sei anni.
In ogni caso, il delitto di violenza domestica assorbe i reati di ingiuria, percosse e minacce (si viene eventualmente condannati soltanto per i maltrattamenti contro familiari o conviventi).
Qualora dalla violenza derivi una lesione personale grave, la pena è quella della reclusione da quattro a nove anni (si pensi a un minore, la cui crescita sia stata ritardata per i maltrattamenti subiti dai genitori, consistiti nell’averlo privato per lungo tempo del normale nutrimento); se gravissima (che comporti, ad esempio, la perdita dell’uso di un organo o della capacità di procreare), da sette a quindici anni. Nella denegata ipotesi in cui dai maltrattamenti derivi la morte del soggetto (si pensi al colpo letale inferto a una donna vittima di violenze da parte del marito, che le abbiano causato danni cerebrali) la pena sarà quella della reclusione da dodici a ventiquattro anni.
Magistrature Superiori, per il tramite dell’ Avv. Roberto De Angelis, di lunga e proficua esperienza professionale nel processo penale, offre una specifica assistenza sia in difesa degli imputati di maltrattamenti in famiglia, che non di rado vengono ingiustamente accusati dal coniuge o dai figli, sia delle persone offese che debbono ottenere garanzia per la loro incolumità ed il risarcimento per i danni sofferti.